mercoledì 24 aprile 2024

VENNI, VIDI E M’ARRAPAHO (1984)

Regia Vincenzo Salviani 

Cast Giziana Spatrisano, Alessandro Cerquetti, Athena Minglis 

Parla di “sfigatissimi musicisti in cerca di gnocca tentano di vincere un concorso mentre sullo schermo esplodono le note di soavi canzoncine che ci suggeriscono quanto è dolce la patata” 

Non è ben chiaro se il termine “M’arrapaho” inserito nel titolo sia uno stratagemma opportunistico per sfruttare il contemporaneo successo del film di Ciro Ippolito dedicato agli Squallor, se si riferisca al nome della band protagonista, ovvero gli Arrapathis, o meglio ancora alle pulsioni sessuali dei suoi membri, perennemente malati di figa, al punto che anche i testi delle canzoni che dominano la trashissima colonna sonora esprimono totalmente l’urgenza di una sana chiavata. In realtà assistendo alle vicissitudini di questi quattro sfigati, non si giungerà mai a null’altro oltre a qualche casto bacetto da parte delle loro pseudo fidanzate con cui, per tutta la durata del film, non faranno altro che scorrazzare per le vie cittadine, infrattarsi nei parchi o simulare coiti con la voce previo colazione pagata per tre mesi. 

Per il resto i giovanottoni passano il tempo a rubare il pesce che due pescivendoli concorrenti si lanciano sulla piazza cittadina, per poi utilizzarlo come pagamento del noleggio di un sassofono appartenente ad un vecchio bisbetico con la figlia perennemente sdraiata sul letto che i quattro si divertono a sbirciare nascosti dietro la porta. Approvvigionatisi del suddetto strumento li vediamo esibirsi poco convinti presso una sala da ballo durante le lezioni di aerobica dirette da un pederasta che sembra il fratello scemo di Ninetto Davoli. Più interessati ad osservare culi e tette delle ballerine che a suonare, i quattro scemi affronteranno a fine film, persino un concorso musicale dove finalmente la fidanzata del sassofonista, membro della band nemica (i due leader si sfidano all’inizio persino ad una gara di motocross) decide di cantare con gli Arrapathis e sfodera una voce di gallina in grado di sfondare un cristallo di Boemia a chilometri di distanza. Il finale poi è una perla di montaggio dove la figlia del proprietario del sax (che senza soldi si rifiutava di prestarlo per il concorso) ruba lo strumento al padre ed entra nel teatro, dopodichè stacco improvviso e il protagonista si alza dal pubblico suonando meravigliosamente. A questo punto, gli spettatori si sorbiscono una smielatissima canzone in inglese maccheronico ed il pubblico esplode di gioia decretandoli vincitori senza che si faccia manco la fatica di far annunciare la vittoria al deprimente presentatore, la cui faccia sembra appena risorta dalla bara. 


Recitazione da filmaccio alvarovitaliano pierinesco arricchita da sequenze panoramiche messe a casaccio, il film diretto dal regista per caso Vincenzo Salviani (più conosciuto come produttore del resto) e coadiuvato da Mario Bianchi (conosciuto soprattutto per le sue pellicole hard), è un curioso mix tra la commedia giovanilistica in stile Porky’s e il musicarello, dove per l’appunto la componente trash è maggiormente rappresentata dalla colonna sonora. Brani come “Monica”, “La canzone del cacchio”, “Luna donna luna” e il grande successo “Come Sarà” rappresentano il punto di non ritorno del minimal synth pop danzereccio anni ottanta arricchito da testi inenarrabili di cui pubblichiamo volentieri un estratto dalla poetica “Domenica Svortamo” 


Domenica Svortamo, 

Sento odore di scopata 

Finalmente scoprirò 

Come è dolce la patata 

(Ritornello: Meeee laaa 

ìImpossibile non commuoversi di fronte a siffatta poesia mentre sul video scorrono le immagini di un guitto che tenta di cantare in playback con una voce non sua e la banda si scaracolla giù dagli scivoli. 

Questo (non) è cinema, ragazzi! 





giovedì 18 aprile 2024

TOP LINE (1988)

Regia Nello Rossati 

Cast Franco Nero, Deborah Moore, George Kennedy 

Parla di “scrittore alcolizzato scopre astronave aliena dentro un galeone spagnolo e da quel momento viene inseguito da tutti, compreso un Terminator modello Michael Jackson”  

Opera poco conosciuta di un onesto mestierante come Nello Rossati, questo Top Line richiama negli intenti la moda del misterioso Triangolo delle Bermude generata nel 1978 con il successo dell’omonimo film di Renè Cardona Jr. Successo che durò una decina d’anni tirandolo per le lunghe con una serie di titoli in cui si inserivano spiegazioni (a turno) di tipo demoniaco/fantascientifico/avventuroso per quanto riguarda l’inspiegabile evento che fece scomparire navi e aerei nel corso dei decenni precedenti (ci fu persino un gioco da tavolo che probabilmente oggi, a livello di collezionismo, vale una fortuna). Purtroppo il film di Rossati arrivò fuori tempo massimo e quindi non se lo filò nessuno. Peccato perché, almeno per quanto riguarda la prima parte, non è malaccio, ma purtroppo quando si entra invece nel vivo della fantascienza con alieni e androidi che il cinema italiano piomba improvvisamente in ambito trash, soprattutto nella resa degli effetti speciali. 

Il protagonista Ted Angelo (Franco Nero) è uno scrittore italiano alcolizzato che vive a Cartagena, mantenuto dalla ex moglie (la bellissima modella Mary Stavin) a scrivere articoli sugli aztechi. Quando giunge alla sua attenzione l’antico diario di un conquistadores, Ted viene invischiato in una serie di omicidi e si reca sulla montagna dove è stato ritrovato il manoscritto, qui scopre un galeone spagnolo al cui interno vi sono elementi di fattura aliena. Da questo momento il film prende una piega da spy story con inseguimenti e sparatorie tra cui una adrenalinica corsa su un furgone pieno di galline guidato da due contadini ubriachi. Tra un sicario e l’altro spunta anche il Terminator, un gigante che sembra la copia ispanica di Michael Jackson nel video Thriller. L’androide rivela la sua fattura meccanica quando, ad un certo punto, finisce nel bel mezzo di una fabbrica di fuochi artificiali che ha preso fuoco, lo vediamo con mezza faccia ricoperta da cavi e cavetti elettrici con un occhio sporgente, attaccato a una protuberanza di plastica, che si muove disconnesso dall’altro; un mirabile esempio di make-up alla caciottara tipico dei b-movie italiano, in altre parole: una meraviglia! 

Ma se il cinema nazionale difetta di alti budget, non lesina in quanto a fantasia e infatti, a distruggere il mostruoso terminator, ci pensa nientemeno che un toro inferocito. Sul finale poi, possiamo goderci appieno l’apparizione dell’alieno, nascosto in forma umana perché ovviamente sono intorno a noi da millenni e chiaramente ci comandano (tanto per citare anche il contemporaneo Essi Vivono). Peccato che la trasformazione sia l’apoteosi del ridicolo, tra filari viscidi e bava colante, il mostro si rivela con una assurda faccia da mastino napoletano che muore miseramente con un semplice colpo di pistola mentre sta per farsi un boccone del povero Franco. E tornando a bomba sul protagonista, non si può che provare compassione per un tapino che sembra l’Indiana Jones dei poveri, costretto a correre a piedi scalzi su un terreno costellato di cactus e ad affrontare il cattivo George Kennedy che gli da le spintarelle con il cofano dell’auto. Estetica trash a parte, il film diverte e intrattiene il giusto, impreziosito da una trainante colonna sonora che mescola trame poliziottesche a sonorità caraibico-elettroniche. All’estero è stato venduto come Alien Terminator, titolo decisamente opportunista ma che comunque mantiene le sue promesse (gli alieni ci sono, il Terminator anche, che volete di più?). 

giovedì 11 aprile 2024

SHARKULA (2022)


Regia Mark Polonia 

Cast Jeff Kirkendall, Kyle Rappaport, Jamie Morgan 

Parla di “squalo morso da vampiro diventa vampiro a cui il vampiro offre sacrifici umani e alla fine lo spettatore rimane lì a chiedersi cosa cazzo ha appena visto!” 

MASOCHISMO CINEMATOGRAFICO  

sostantivo maschile

Una (neanche poi troppo) rara forma di malattia mentale che ti impone di guardare schifezze che neanche un neonato girerebbe così male, nonostante tu sappia già cosa ti aspetta. 


Non sono un medico ma potrei diagnosticare questa malattia a chi si approccia alla visione di questo obbrobrio firmato dal prolifico Mark Polonia, autore di inenarrabili schifezze dal quale attendiamo con malcelata impazienza anche Cocaine Shark, nato sull’onda del successo di Cocaine Bear. Del resto non potevo dire che non ero stato avvisato, visto che analoghi titoli come Shark Exorcist o Sharkenstein ravvisavano la porcaggine più estrema. In una scena iniziale realizzata con un filtro che dovrebbe evocare l’effetto flashback ma che, di fatto, taglia a metà lo schermo con una specie di tendina sfumata, vediamo il conte Dracula inseguito da quattro sparuti paesani in mezzo ai campi. Giunto davanti a una scogliera, un villico lancia un coltello che colpisce il vampiro in un’esplosione di sangue digitale fumettosamente pop. Il conte cade in mare, uno squalo gli morde il braccio e lui gli azzanna una pinna. Inizio folgorante con una canzoncina in stile surf che ripete fuori tempo la parola Sharkula fino all’ossessione con una voce da tossico appena levatosi dalla bara. La scena si sposta in una cittadina di mare rinominata lovecraftianamente Arkham dove svolazzano sempre gli stessi due gabbiani (perché lo stesso girato viene mandato in loop più volte nel corso dello spettacolo al fine di aumentare il metraggio col minimo sbattimento possibile). Qui John e Arthur, due tizi che sembrano un mix tra cacciatori di frodo e spacciatori di metanfetamina, prendono alloggio da un rincoglionito di nome Renfield (giustamente!) che recita come uno zombie addormentato indossando un ridicolo cappello. 

Nella cantina c’è una tizia vampirizzata e, in una bara coperta di reti da pesca, dorme il conte Dracula che di notte organizza sacrifici umani a Sharkula “master of the red sea”, un cartoccio a forma di squalo butterato con ridicole ali da pipistrello, appiccicato davanti allo schermo su uno sfondo marittimo recuperato da qualche wallpaper animato: una roba devastante! Del mostro vedremo una pinna inserita malamente su inquadrature di mare mosso, due fanali di auto appiccicati sul fondo marino e un muso di squalo di gomma inquadrato davanti alla scena per farlo sembrare gigante, tutto questo senza che regista e membri della crew provino alcuna vergogna per quello che stanno facendo. Poi siccome è necessario raggiungere almeno un’oretta di girato perché si abbia un lungometraggio ai minimi sindacali, Polonia ci piazza ogni tanto una tizia vestita di pelle che piroetta candelabri circolari con tante belle fiammelle, recuperata da qualche associazione di artisti da strada a basso costo.

Nel mezzo ci sono anche due zombie con tanto di saio da monaco e mascheraccia di gomma da scheletro, che durante le sequenze di sacrifici umani, si guardano negli occhi quasi a chiedersi cosa cazzo ci stanno a fare lì. E visto che bisogna allungare il brodo, a metà film il regista ci ripropone pedissequamente il flashback iniziale, perché forse non avevamo ben capito le origini dello squalo vampiro. La recitazione è inesistente condita da interminabili dialoghi, gli attori si muoverebbero probabilmente meglio se qualcuno gli ingessasse mani e piedi, gli effetti fanno rimpiangere le schifezze catastrofiche che passavano fino a qualche mese fa sul canale TV Cielo (e in America su SyFy Channel) con una CGI talmente primordiale che se ritagliavano il cartoncino e lo muovevano sullo schermo con la mano in bella vista, forse avremmo almeno apprezzato l’artigianalità della cosa (neanche quella poi tanto, visto il ridicolo pipistrello di stracci che ogni tanto svolazza sullo schermo).  Tanto poi alla fine, ad attirare pubblico e distributori basta solo il poster e l’idea dello squalo vampiro, tutto il resto è solo un riempimento inutile ma doveroso. 


giovedì 4 aprile 2024

PARENTESI TONDE (2006)

Regia (???) Michele Lunella 

Cast (????????) Raffaella Lecciso, Rocco Pietrantonio, Francesca D’auria 

Parla di “non so! Credo che il mio cervello per salvaguardare la mia salute mentale abbia resettato tutto a fine visione” 

I Più anzianotti forse ricorderanno la (non) recitazione di Tinì Cansino et similia nel programma Drive-In, per tutti gli altri basti pensare ad una qualsiasi televendita mediaset degli ultimi 20 anni (non che quelle prima fossero migliori, eh! Ma una forbice di tempo va data comunque) e si avrà un esempio perfetto della performance recitativa del cast di Parentesi Tonde, anzi Parentesi T()nde come gigioneggia il titolo iniziale dell’esordio alla regia di Michele Lunella. Un film che ha superato in breve tempo tutti i livelli del brutto accettabile, roba che “Alex L’Ariete” sembra un film di Cristopher Nolan al confronto. Si perché qua, se non altro, vige l’assoluto suffragio poiché non vi è un solo attore cane, ma lo sono tutti quanti, in maniera democratica, e tutti riescono a recitare malissimo, anzi a non recitare. 

Se vi è capitato di sentire il termine “non musica” per decifrare un certo tipo di sperimentalismo sonoro, qui siamo di fronte ad un “non cinema” che, purtroppo, di sperimentale (anzi di sperimentato) ha solo un fiasco colossale alle sue spalle. Basti pensare che Lunella era direttore di produzione di “Cient’anne”, esordio al fulmicotone di Gigi D’Alessio al cinema, esordio che contribuì non poco ad espandere il neomelodico campano fuori dai confini regionali. La trama riprende le atmosfere cariche di odio (dello spettatore) tipiche dei cinepanettoni vacanzieri senza un minimo budget per assoldare un paio di comici sfigati da mettere sul cartellone. 

Ci si rivolge quindi ad una serie di figuranti rifiutati persino da L’isola dei famosi, come Giucas Casella (nei panni di un prete), Antonio Zequila, Eva Henger e, dulcis in fundo, la sorella gemella della Loredana Lecciso, Raffaella, come protagonista, dandole pure un ruolo quasi di spessore (come una fetta di salame ben tagliata). Una che cerca un amore non banale e finisce a letto con Mark (Rocco Pietrantonio) animatore fighetto e arrivista che colleziona mutandine nel cassetto. Poi, nelle sottotrame di questo villaggio “Ahiahiahi! No Alpitour?” in cui nessuno vorrebbe soggiornare, c’è pure la romanza sfigata del personal trainer con figlio annesso che tenta di ricucire il rapporto con la madre sotto gli occhi della moretta strainfatuata di lui (Francesca D’auria che almeno è figa!) ma che capisce e comprende e si tiene in disparte (tanto la madre del bimbo è una zoccolona con il volto della Henger). 

Poi c’è il nanetto animatore che fa il pagliaccio e lancia freddure da denuncia, i tres amigos che cantano in napoletano (ma soprattutto in playback), il cuoco finto francese che in realtà dovrebbe (usiamolo questo condizionale!) essere un sosia di Bud Spencer, una misteriosa talent scout che deve scoprire non si sa chi in questo posto di sfigati, un concorso di stelle nascenti messo in piedi tra concorrenti che non sanno fare un cazzo, fotografia televisiva, montaggio con lo scotch e regia inesistente. Anche le location sono tremende, persino il mare sembra fare più schifo di quanto lo sia veramente (mi sembra che il film sia girato in Puglia o giù di lì). 

Insomma, se l’albertone nazionale (parliamo di Alberto Tomba non Alberto Sordi) al suo esordio cinematografico faceva rotolare dalle risate pur senza volerlo, qua invece ci si incazza a morte, specie se si è pagato qualcosa per vedere ‘sta ciofeca immonda che stana il peggio della televisione trash per portarlo sul grande schermo e ampliare dunque l’enfasi della monnezza a dimensioni maggiorate. Ad un certo punto spunta anche Marco Columbro, in una fugace inquadratura probabilmente rubata mentre magari si faceva i cazzi suoi. 

mercoledì 27 marzo 2024

MONSTER A GO-GO!

(1965) 

Regia Bill Rebane, Hershell Gordon Lewis  

Cast Henry Hite, Peter M. Thompson, Rork Stevens 

Parla di “cosa fare di un pessimo film non finito per mancanza di soldi e come completarlo non disponendo più degli stessi attori” 

Cercate un film di mostri? Non fatevi ingannare dal titolo, questo film di mostri non ha assolutamente traccia, una pellicola così povera e malfatta che, nel finale, si sceglie addirittura di far scomparire il mostro stesso lasciando un finto alone di mistero che altri non è la chiusura frettolosa di un’opera fatta con quattro soldi. Realizzato da Bill Rebane, regista che il suo mestiere non lo sapeva assolutamente fare ma proprio per questo è stato in grado di regalarci tanti piccoli cult del cinema trash (basti pensare al bruttissimo Invasion of the Giant Spiders). Leggenda vuole che Rebane, nel bel mezzo della realizzazione, si accorse di aver finito il budget lasciando la pellicola a metà. Acquistato e completato successivamente da Hershell Gordon Lewis (sua è la voce narrante che cerca di coprire disperatamente i buchi della sceneggiatura) , il film risentì parecchio di questa situazione. 

Lewis tentò di ricucire il cast e quei pochi che riuscì a scritturare avevano persino cambiato aspetto con il risultato che il regista utilizzò attori diversi per la stessa interpretazione in un delirio raffazzonato, oggi considerato uno dei peggiori film mai realizzati.  La storia parte dal ritrovamento di una capsula spaziale (ma, dalle dimensioni del modellino, ci si chiede come faccia a starci dentro un essere umano) ma non del suo astronauta, tale Frank Douglas interpretato da Henry Hite, un omone alto e magrissimo che ciondola per le poche sequenze ove è possibile vederlo, come una specie di scheletro umano tutto butterato. Trasformato in un un mostro dalle radiazioni, l’astronauta allampanato inizia ad ammazzare gente, mentre la solita equipe di scienziati ci ammorba con un’infinità di dialoghi inutili. Da quello che si legge, quindi, siamo pure di fronte ad un mezzo plagio de “L’astronave atomica del dottor Quatermass” ma più lento, direi praticamente statico, con inquadrature che ostentano persone sedute al bar a parlare con una flemma che raramente troverete in altri film. 

Difficile restare svegli e se ci riuscite è solo per incazzarvi a morte, perché il finale, come già accennato, è un’autentica “sola”. L’astronauta, infatti, viene inseguito da polizia, scienziati in tuta antiradiazioni (che per indossarla ci mettono un’eternità) e pompieri. La caccia si sposta nelle fogne ma ad un certo punto il mostro non c’è più, tutti risalgono in superficie dove arriva un misterioso dispaccio in cui si informa che l’astronauta Frank Douglas è vivo e vegeto e la voce narrante recita: 

“Come se un interruttore fosse stato girato, come se un occhio avesse battuto le palpebre, come se una forza fantasma nell'universo avesse fatto un movimento eoni oltre la nostra comprensione, all'improvviso non c'era traccia! Non c'era nessun gigante, nessun mostro, nessuna cosa chiamata "Douglas" da seguire. Nel tunnel non c'erano altro che uomini coraggiosi e perplessi, che all'improvviso si ritrovarono soli con le ombre e l'oscurità! Con il telegramma una nuvola si alza e un'altra scende. L'astronauta Frank Douglas, salvato, vivo, vegeto e di dimensioni normali, a circa 8.000 miglia di distanza su una scialuppa di salvataggio, senza alcun ricordo di dove sia stato o di come sia stato separato dalla sua capsula! Allora chi o cosa è atterrato qui? “ 

Che in linguaggio da produttore quale era il buon H.G.Lewis si traduce in “Il film è finito, i soldi pure, io ho il mio bel prodotto da abbinare ai Drive in e tu, caro spettatore, te lo prendi, ancora una volta, nel c….” 



Che poi voglio proprio vedere se qualcuno restava sveglio fino alla fine. 

venerdì 22 marzo 2024

KISS ME QUICK!

(1964) 

Regia Peter Perry jr 

Cast Max Gardens, Frank A. Coe, Althea Currier 

Parla di “Alieno Sterilox da pianeta di castrati cerca donne terrestri per salvare la sua razza e incontra scienziato pazzo con mostri e donnine al seguito” 

Se state seguendo il nostro blog da un po’ di anni (per l’esattezza è dal 2007 che esistiamo, tanto per ribadirlo) avrete sicuramente chiaro il concetto di “sexploitation”, se diversamente non avete ancora capito di quale tipo di pellicola stiamo parlando, potete vedervi tranquillamente questo filmaccio diretto da Peter Perry jr. che ci aveva deliziato con il suo esordio nude cute contaminato dal western “Revenge of the virgins”. Ma se il precedente titolo rivendicava a suo modo l’emancipazione femminile, in questo caso la questione esploitativa è senza dubbio a uso e consumo del pubblico maschile. 

Le contaminazioni horror e fantascientifiche di questa bruttezza cinematografica sono minimali, quello che conta, in definitiva, sono gli spogliarelli di bellocce formose agghindate con carichi pesanti di biancheria intima, quasi fosse un rito pagano, tolti alle bellone sempre nello stesso identico ordine: prima le calze, poi corpetto e reggiseno e infine mutandoni neri come la pece, anche se il pube non viene mai inquadrato se non attraverso qualche ripresa “birichina”. In principio doveva intitolarsi Dr. Breedlove or How I Learned to Stop Worrying and Love, in omaggio al Dottor Stranamore di Kubrick di cui il protagonista Max Gardens plagia praticamente alcune movenze (soprattutto quando litiga con la mano finta), poi inspiegabilmente la produzione ha preferito riferirsi al film di Billy Wilder “Kiss me stupid”, probabilmente uscito subito dopo (tutti e tre i film sono del 1964). 

La trama vede come protagonista l’alieno Sterilax della Galassia Buttless che viene inviato sulla Terra per trovare la donna perfetta e piomba nel laboratorio del dottor BreedLove che sembra produrre bellezze mozzafiato a ritmo industriale grazie ad una avveniristica sex machine in grado di convertire le donne in schiave sessuali. Nel bailamme spunta anche il mostro di Frankenstein ridotto ad un mezzo deficiente che si ciuccia il dito come un poppante. L’alieno, interpretato da Frank A. Coe  recita scimmiottando Stan Laurel nel tentativo di far ridere indossando un ridicolo cappello di latta con piumino rosa e un pesante trucco da Clown sulla faccia. Il mad scientist, invece, ha la faccia sbiancata di cerone con una serie di cicatrici finte disegnate con il pennarello, indossa occhiali da sole rotondi, rossetto sulle labbra (ma perché??), un collare ortopedico da post trauma e parla con un inglese maccheronico tipico dell’indiano trapiantato nell’impero britannico. La coppia passa tutto il tempo a guardare spogliarelli attraverso un oblo di plastica che sembra il coperchio di una lavatrice, i viaggi spaziali vengono esemplificati attraverso due scariche elettriche in primo piano su sfondo nero. 

Per il resto, tutto il film è realizzato in un'unica stanza, con una sola scenografia e un’oretta di tempo abbastanza sufficiente per rompere i coglioni anche allo spettatore più tollerante (ma se siete sopravvissuti a “Orgy of the dead” potete farcela). Simpatica (ed economica) l’idea di non usare titoli di testa ma farli elencare da un’attrice, anche la vena anarchica che permea il film non è da disprezzare, ma dopo il quinto o sesto spogliarello non se ne può veramente più. Ah! Per non farsi mancare nulla c’è anche una breve apparizione del conte Dracula sdentato che non riesce a mordere le donnine, penoso! 

mercoledì 13 marzo 2024

THE FLYING SAUCER

(1950) 

Regia Mikel Conrad 

Cast Mikel Conrad, Pat Garrison, Hantz von Teuffen 

Parla di “UFO avvistato nei cieli entra in piena guerra fredda e viene conteso da russi e americani” 

In questo film gli americani vedono un disco volante sfrecciare nel cielo accompagnato da un rombo assordante, spuntano i classici titoloni sui giornali, c’è perfino una vecchia che guarda lo schermo ed esplode in un urlo di terrore surreale. Tutto questo casino insomma e di cosa si preoccupano le alte sfere yankee? Di prepararsi al contatto con gli extraterrestri? Noooo! Di raccogliere evidenze scientifiche per migliorare la razza umana? Macchè! La preoccupazione più grande è che l’astronave venga carpita dai russi e usata per scagliare le bombe atomiche in ogni parte degli Stati Uniti. Un tipo di ansia che esprime perfettamente lo stato mentale e paranoide degli americani nell’immediato dopoguerra, forti della scoperta di un ordigno nucleare perfetto per lo sterminio di massa (si veda a proposito il recente Oppenheimer di Cristopher Nolan) e di una vittoria ottenuta con la cancellazione di due città giapponesi. 

C’è da dire che nel film di Mikel Conrad, gli alieni non vengono proprio menzionati poiché si sa, sin da subito, che l’astroveicolo è di manifattura umana. Pur essendo un’opera che apre sul grande schermo, ad un filone decisamente fantascientifico, questo The Flying Saucer sceglie strade più affini allo spionaggio e all’avventura anche se, le fattezze della macchina volante verranno prese a modello per realizzare un film di ben altro calibro nel cinema Sci-Fi quale è “La Terra contro i dischi volanti”. Del resto siamo comunque di fronte a un’operetta da quattro soldi, realizzata male e recitata anche peggio, con una sceneggiatura che grida vendetta ed effetti speciali in sovrimpressione che fanno ridere, dove il regista stesso si erge a protagonista (nonché autore e produttore) senza averne manco il phisique du role se non per fumare ininterrottamente e ubriacarsi in modo osceno. Il nostro eroe (che si chiama Mike) viene inviato in Alaska per indagare sui misteriosi avvistamenti di UFO e siccome deve fingere di essere un malato di nervi in cerca di riposo, lo accompagna pure una finta infermiera di nome Vee (Pat Garrison) che ovviamente si innamora di lui. 

Tra ridicoli scazzottamenti contro gli odiati russi e lunghissime carrellate aeree sui panorami di ghiacciai e distese deserte, il film riesce ad annoiare in appena un’ora e quindici con buchi di script che sembrano studiati per allungare il brodo (si veda l’inutile apparizione di un orso o le inutili camminate di Vee alla ricerca di Mike, misteriosamente scomparso anche se in realtà è steso ubriaco su una lastra di ghiaccio), da manuale la scena nella grotta dove Mike cattura uno dei russi e lo usa come scudo mentre il compare gli punta un mitra contro, c’è un momento di silenzio in cui si fronteggiano e poi il russo ostaggio si mette a urlare prima di essere mitragliato. Imbarazzante operazione di propaganda postbellica, cinema da guerra fredda, ridicolo e malfatto, The Flying Saucer ha anche dei difetti!